Il quaderno delle parole difficili
- Cassius

- 7 apr 2021
- Tempo di lettura: 2 min
Quando Cassius mi ha gentilmente proposto di dargli una mano con gli aggiornamenti del suo blog, avevo promesso di rimanere il più imparziale possibile. Ci proverò anche questa volta, ma senza troppe garanzie.
Nel corso degli ultimi 13 mesi i nostri figli hanno potuto stralciare diversi vocaboli dal loro quaderno delle parole difficili.
Una di queste, essendo purtroppo diventata un mantra, è “Resilienza”. Sono convinta che sia proprio la parola giusta per immergersi in una riflessione produttiva.
Nel vocabolario ho trovato due definizioni. La prima viene usata in psicologia ed è “la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà” ma ce n’è un’altra “capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”.
L’idea di mettere “su carta” alcune mie riflessioni è nata ieri sera, dopo aver letto i commenti all’articolo “Dodicenne scappa da Berna fino in Francia”. A dire il vero non sono ancora riuscita a trovare un aggettivo capace di sintetizzare le mie emozioni a riguardo. Delusa? Triste? Sconcertata? Sicuramente inorridita.
Non concepisco come sia possibile che la prima cosa a cui si pensi quando un ragazzino si allontana da casa sia “qualcuno dovrebbe riempirlo di botte, così gli passa la voglia di scappare” oppure “chi si occuperà dei costi della ricerca?”
Grandi e piccini stiamo vivendo una situazione che non si verificava da diverse generazioni, in un contesto completamente nuovo. A volte mi ritorna alla mente la mia guida di Sarajevo quando raccontava che, a suo modo di vedere, quanto successo nella sua città fosse un esperimento volto a mettere alla prova l’unità tra le diverse etnie che la vivevano. Negli ultimi tempi mi sento un po’ così anch’io.
Non riflettere su chi, di o con, questa malattia è morto risulta praticamente impossibile, siamo perpetuamente tempestati da numeri e aggiornamenti.
Trovo però difficile trascurare chi ha perso il lavoro, un’attività, la casa o addirittura la famiglia. Alcuni hanno perso proprio tutto.
A che punto si passa dalla prima alla seconda definizione di resilienza? E quando la capacità di assorbire urti viene a mancare? Quando ci si rompe?
Noi “grandi” siamo davvero così sicuri di essere in grado di dare il corretto esempio ai nostri giovani?
Da quanto si deduce dai più recenti dati sulla violenza, domestica e non, direi proprio no.
A chi possono rivolgersi bambini e ragazzi che la subiscono, quando sono costretti ad avere meno contatti possibili al di fuori dell’ambito familiare? Purtroppo, molti più di quanti si possa pensare il mostro ce l’hanno in casa.
Spero, ma temo sia solo una mia illusione, di non dover cancellare troppo presto dal quaderno delle parole difficili anche “Espiazione”.



Wow Boh !
Questa è un'epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra per occultare il vuoto della stanza.
Tenzin Gyatso
La resilienza vale se non si aliena la propria identità. Ma visto il momento e la famosa responsabilità individuale, ormai la parola resilienza non può più essere positiva, l'alienazione è continua e richiesta a gran voce da "scienza" e politici. Sono stufo di questa parola, abusata dai più come fosse un mantra. Ci chiedono resilienza e ci privano dell'identità, le due cose non vanno di pari passo, più che altro è un logorio, continuo, incessante, onnipresente. È qualcosa di talmente Orwelliano che neanche l'autore di 1984 ha osato immaginare. Ora il nemico è ognuno di noi, il tuo vicino, il collega, lo sconosciuto, e se hai dei dubbi, se ti poni delle domande, se sai che tu di certezze non…
Fanno eccezione i commenti di Cielo e Cassius.